“Tuvia era mio nonno. Vera è mia nonna. Rafael, Rafi, mio padre, e Nina… Nina non c’è. Nina non è qui. È sempre stato questo il suo contributo particolare alla famiglia”, annota Ghili nel suo quaderno. Ma per la festa dei novant’anni di Vera, Nina è tornata; ha preso tre aerei che dall’Artico l’hanno portata al kibbutz, tra l’euforia di sua madre, la rabbia di sua figlia Ghili, e la venerazione immutata di Rafi, l’uomo che ancora, nonostante tutto, quando la vede perde ogni difesa. E questa volta sembra che Nina non abbia intenzione di fuggire via; ha una cosa urgente da comunicare. E una da sapere. Vuole che sua madre le racconti finalmente cosa è successo in Iugoslavia, nella “prima parte” della sua vita, quando, giovane ebrea croata, si è caparbiamente innamorata di Milos, figlio di contadini serbi senza terra. E di quando Milos è stato sbattuto in prigione con l’accusa di essere una spia stalinista. Vuole sapere perché Vera è stata deportata nel campo di rieducazione sull’isola di Goli Otok, abbandonandola all’età di sei anni e mezzo. Di più, Nina suggerisce di partire alla volta del luogo dell’orrore che ha risucchiato Vera per tre anni e che ha segnato il suo destino e poi quello della giovane Ghili. Il viaggio di Vera, Nina, Ghili e Rafi a Goli Otok finisce per trasformarsi in una drammatica resa dei conti e rompe il silenzio, risvegliando sentimenti ed emozioni con la violenza della tempesta che si abbatte sulle scogliere dell’isola.
E, a proposito, scopro che è leggera da far paura. A quanto pare non solo non ha cuore, probabilmente le mancano anche altri organi. E pensare a quante tonnellate pesava quando non c’era.
Nina no ha legami. Non sa amare e non riesce ad avere nessun legame nemmeno con il marito e nemmeno con lei, Ghili, sua figlia. Nina non c’è, fisicamente non c’è mai stata ma la sua presenza è tangibile, è nell’aria della loro casa e nel suono delle loro parole. Rafael l’ha sempre amata, ogni volta che Nina tornava a casa cercava di trattenerla per sempre perché per lui Nina è l’unico amore. Ghili invece la odia e odia pure suo padre per continuare ad amarla sempre. Ghili porta addosso le cicatrici di una adolescenza senza madre, la sua solitudine e il vuoto che però continua a negare. Accanto a lei solo il padre e Vera, la nonna forte, sempre presente, quasi perfetta se non fosse che è proprio lei la madre di Nina. Loro sono gli unici però a sapere cosa sia accaduto a Nina, perché lei si senta rotta, spezzata o semplicemente difettata, perché solo una madre difettata può comportarsi come sta facendo lei, ferendo chi la ama e adorando chi la sfrutta. Nina non sa, nessuno le ha mai detto quello che le è successo ma il giorno è arrivato e un viaggio è l’unica via d’uscita. Ripercorrere la vita di Vera, donna prigioniera della dittatura di Tito, ma prima di tutto donna che ha amato Milos al dì sopra di ogni cosa. Un viaggio di luoghi e di anime dove con l’affiorare dei ricordi affiorano gli errori. Una storia ruvida che ogni pagina ”gratta” sulla pelle, fa male, ma come il viaggio dei protagonisti, è inevitabile. Un romanzo che ho letto in bilico tra il voler sapere e il non voler sapere la verità, perché sin dall’inizio si percepisce che qualcosa manca, qualcosa ancora non è stata detta. Un romanzo che racchiude una parte di storia importante e vera della ex Juguslavia, vera come lo sono le due protagoniste di questo romanzo: Vera e Nina, nella realtà Eva Panic’ Nahir e sua figlia Tiana Wages. Una storia sugli orrori dei “gulag di Tito” e del coraggio di viverli e di sopravviverli. Un libro sui legami invisibili e indissolubili della famiglia, di come sia impossibile vivere senza e del peso della loro assenza. Un libro verità per continuare a dare voce a donne che forse hanno sbagliato ma che sicuramente senza di loro il mondo sarebbe un posto più buio.
Titolo: La vita gioca con me
Autore: David Grossman
Genere: Narrativa Contemporanea
Pubblicazione: 29 Ottobre 2019
N° pagine: 293
Casa Editrice: Mondadori